Omofobia Lettera di una madre per il figlio 11enne gender-creativo

Omofobia Lettera di una madre per il figlio 11enne gender-creativo

L’omofobia si può conoscere sin da piccoli e alle volte da persone amiche. La vicenda di C.J. (11 anni) un bambino ‘Gender-creativo’ dimostra (Purtroppo) che la lotta all’omofobia è ancora lontana da essere sconfitta e che bisogna attuare delle politiche per l’educazione al rispetto tra i giovani e in particolar modo tra i bambini.

Un bambino che non ha ancora sviluppato una sua identità sessuale, senza pulsioni sessuali che come racconta la madre ci sono giorni in cui si sente gay, altri semi gay o semi bisessuale e altre volte: “Sono soltanto io”.

Purtroppo il piccolo C.J. ha già conosciuto sulla sua pelle l’omofobia, l’odio e il razzismo di una società che non accetta persone non conformi alla sua idea di normalità.

La vicenda di C.J. è stata resa pubblica dalla stessa madre, attraverso una lettera in cui racconta l’intera vicenda. Lettera pubblicata dal sito Huffington Post Italia.

Ecco il testo:

‘Ho stretto mio figlio C.J. tra le braccia tutta la notte. Ha pianto fino a cadere in un sonno irrequieto, poi ha preso a piagnucolare ritmicamente. Se mi spostavo, lui si muoveva verso di me così che le nostre guance potessero toccarsi.

Non dormiva a letto con me da quando aveva sei mesi. Il primo febbraio ha compiuto 11 anni. Una settimana più tardi, Allie, la sua “migliore amica di scuola” gli ha spezzato il cuore.

“La mia famiglia non frequenta persone gay, perciò non ti frequenterò più”, gli ha detto mentre passeggiavano insieme dopo la scuola.

C.J. è rimasto in silenzio. Era scioccato e confuso. Sentire il suo cuore spezzarsi per la prima volta lo ha lasciato senza parole.

Conosciamo superficialmente la famiglia di Allie da nove anni, nel modo in cui si conoscono tutte le famiglie che crescono figli in periferia. C.J. è andato a scuola con Allie per metà della sua vita. Lei ha sempre saputo che lui è un bambino “gender-creative”, che non si conforma alle tradizionali norme di genere, che ama le “cose da ragazza”.

A quanto pare, anche se Allie e la sua famiglia sembravano apparentemente (almeno in parte) accettare la posizione di CJ, non accettano che sia gay.

“Com’è andata a scuola?”, ho domandato a C.J. quel pomeriggio quando è salito in macchina.

“Bene”, ha risposto. Riuscivo a capire che non c’era niente che andasse bene nel suo mondo.

Siamo rimasti in silenzio per alcuni minuti, finché il suo dolore non è venuto fuori tra le lacrime. Troppo, perché potessi comprenderlo.

“Ha detto proprio così. Ha detto che la sua famiglia non frequenta persone gay, perciò lei non può frequentare me. Ha detto che sono l’unica persona gay che conosce e che non vuole conoscermi. Ha detto che tutti i nostri amici saranno suoi amici adesso, perché è più popolare di me”, confessava singhiozzando, con la testa tra le mani. Le lacrime gli sgocciolavano dalle dita sottili, sporche dopo aver giocato a pallamano sull’asfalto.

In questo momento della sua vita, C.J. non parla tanto del suo orientamento sessuale. Non è ancora un essere umano con pulsioni sentimentali o sessuali; è un bambino di 11 anni con tanto tempo ancora davanti a sé per capire da chi si sente attratto, contando sul nostro amore e supporto incondizionati. Quando ne parla, però, a volte si definisce gay. A volte dice di essere metà gay e metà bisessuale. Altre volte dice “Sono soltanto io”.

Qualunque sia la sua sessualità in futuro, quel pomeriggio l’omofobia ha trasformato mio figlio nell’incarnazione del dolore.

Come tutte le persone LGBTQ e di genere non-binario, C.J. ha imparato a vivere ignorando gli sguardi, le risatine e i commenti beffardi degli estranei. Sa ignorare con una certa facilità le domande invadenti e le battutacce dei compagni di classe. Ma far fronte all’ostilità di una delle persone più importanti della sua vita – una dei suoi migliori amici – non gli era mai capitato prima. Ha inciso un taglio netto nel suo cuore che forse non si rimarginerà mai.

Ho continuato a guidare anche se era l’ultima cosa che volevo fare. Volevo accostare e accoccolarmi con lui sul sedile posteriore per consolarlo. Al nostro rientro Matt, mio marito, ha capito subito che qualcosa non andava.

C.J. era tutto lacrime e domande inevase.

“I genitori di Allie sono omofobi?”

“Odiano le persone gay?”

“Odiano me?”

“Se qualcuno è mio amico, sarà ancora popolare?”

“Chi si siederà accanto a me in pausa pranzo?”

“Chi giocherà con me durante la ricreazione?”

“Perché le persone provano odio per qualcosa che non possono cambiare?”

D’istinto, la mia reazione è stata la voglia di sfogarmi. Volevo inviare messaggi inquisitori alla mamma di Allie. Volevo sottolineare l’errore di Allie nei confronti di C.J. e restituire il regalo di compleanno che gli aveva donato con un sorriso, solo pochi giorni prima. Volevo cancellare tutti gli appuntamenti presi con le altre mamme per far giocare i nostri figli e i lavoretti creativi che questi avevano fatto. Volevo distruggere le foto scattate con Babbo Natale durante le feste.

Sapevo di non ragionare in modo logico; stavo pensando con il cuore. Mi sono ricordata di una delle lezioni che impartiamo a entrambi i nostri ragazzi: non possiamo lasciare che l’odio alimenti altro odio. Più facile a dirsi che a farsi.

C.J. non prova vergogna per il fatto che gli piace il make-up o quando pensa che un altro ragazzo sia carino. Allie ha saputo anche altro durante l’ultimo anno scolastico. Fino a qualche mese fa, era la prima persona esterna alla famiglia a cui C.J. aveva parlato della sua probabile omosessualità. Lei si è sentita un po’ a disagio, ma la loro amicizia è andata avanti. Quando è uscito il film “Wonder”, hanno scoperto entrambi di avere una cotta per il coprotagonista maschile. Allie pensava che fosse strano, ma anche perfettamente comprensibile perché quel ragazzo era proprio carino.

Immagino ci siano stati solo piccoli accenni all’omosessualità fino alla rottura finale. Poi, Allie è finita nei guai quando i genitori l’hanno beccata a leggere il mio blog, dove parlo di com’è crescere un “gender-creative child”. Qualche giorno dopo, è venuta al compleanno di C.J., tra gli invitati c’erano anche delle persone gay. Durante la festa, C.J. le ha detto con nonchalance che aspettava con ansia la manifestazione O.C. Pride (il nostro Gay Pride locale) e che anche lei doveva partecipare, perché c’era da divertirsi.

Forse Allie ha deciso che l’identità non-eteronormativa di C.J. la mette troppo a disagio per poter essere sua amica, o forse i suoi genitori hanno deciso per lei, fatto sta che il giorno dopo la loro amicizia è finita – ma il dolore fisico ed emotivo di C.J. è appena cominciato.

Mi si è seduto in braccio come un bambino piccolo. Io l’ho abbracciato e cullato pensando “Ecco quello che fa l’odio”. Ecco gli effetti dell’intolleranza. Una madre che culla il figlio di undici anni perché nessuno dei due sa cosa fare per lenire la sofferenza.

“Ti voglio tanto bene”, ho sussurrato.

“Lo so”, ha sussurrato lui.

“Se potessi cancellare il dolore, lo farei”, gli ho detto io.

“So anche questo. Ma non puoi cancellare il gay che è in me”, ha risposto.

Ho desiderato che Allie e i suoi genitori fossero presenti in quel momento. Li avrebbe spinti a riconsiderare le loro fobie? Avrebbero cambiato idea? Avrebbero visto che il mio sensibile ragazzo è una persona speciale da avere nella propria vita? Avrebbero visto che gli sto insegnando ad amare, mentre loro insegnano l’odio ai propri figli?

Il dolore di C.J. arrivava ad ondate, è così che fa di solito il dolore. Lui se ne dimenticava per un attimo. Si stancava per un minuto. Poi se ne ricordava. Le emozioni risalivano e straripavano.

In alcuni momenti, C.J. era inconsolabile. Lo osservavo tremare sul divano, mentre lottava per riprendere fiato tra i singhiozzi. Questa è una delle cause per cui i ragazzini LGBTQ e d’identità non-binaria si uccidono. Il motivo per cui alcuni di loro sprofondano della depressione, iniziano a drogarsi, lasciano la scuola e si lasciano coinvolgere in situazioni sessuali a rischio. Il motivo per cui alcune madri di figli come il mio non hanno più nessuno da stringere.

Ho paura che C.J. non saprà sopportare il dolore e il ripudio negli anni a venire. Non può sopportare notti del genere per altri sette anni di scuola e un numero infinito di compagni di classe che lo odieranno per ciò che indosserà o per chi avrà deciso di amare.

Gli abbiamo fatto un bagno caldo, dicendogli che lo avrebbe calmato. Matt si è seduto sul pavimento accanto alla vasca perché C.J. ne avvertisse la presenza, la protezione. Anche Matt ha versato lacrime lente e silenziose, attento a non farsi vedere da C.J.

“Non rimarrai solo, piccolo. Avrai ancora degli amici”, ha detto Matt prima di elencare tutti gli amici di C.J. – esclusa Allie.

Io e Matt non abbiamo pensato che Allie possa convincere tutti gli altri amici di C.J. a voltargli le spalle. Finora, tutte le sue amiche sono state leali e protettive. Ma lei ha piantato un seme di paura nei nostri cuori, qualcosa che non avevamo mai provato prima. Se Allie, che una volta era una delle amiche più fedeli di C.J., una delle più protettive, ha cambiato idea su di lui da un giorno all’altro, temevo che anche gli altri potessero fare lo stesso.

È stato un crescendo di pensieri, ho immaginato Allie e i suoi genitori che scrivevano, inviavano email e messaggi su Facebook, Twitter e Snapchat a tutte le famiglie dell’annuario scolastico per farle rivoltare contro nostro figlio, solo perché forse un giorno amerà un altro ragazzo. Nei sobborghi, i pettegolezzi e l’odio si diffondono rapidi.

Mi sono fermata prima che quella visione terrificante potesse andare oltre. Anziché rimuginare sulle ipotesi peggiori, io e Matt abbiamo deciso di usare questa esperienza come un’occasione per insegnare. Abbiamo ricordato a C.J. di trattare gli altri come lui desidera essere trattato e che il modo più facile per sottrarre potere a quelli che odiano è comportarsi come se le loro azioni non ti scalfissero affatto.

C.J. ci ha chiesto solo se potevamo andarcene a letto e svegliarci l’indomani. Ho accettato senza esitare. Spesso, il sonno è la risposta

Pensare al giorno dopo gli ha ricordato che quella rischiava di essere la prima volta in cui, forse, si sarebbe ritrovato senza amici a scuola, si sarebbe seduto da solo a pranzo e avrebbe giocato da solo durante la ricreazione. Immaginava di passare il resto dei suoi giorni da solo, odiato perché la famiglia di Allie non frequenta gay e, se Allie non lo fa, non lo farà nessun altro.

“Non farà così male per sempre. Andrà meglio. So che adesso è difficile crederci, ma te lo prometto”, ho detto a C.J. a letto. “Hai tanti amici. Sei straordinario e se gli altri non lo vedono sono loro ad avere dei problemi, non tu. I bambini dovrebbero fare la fila per avere un amico speciale come te”.

Il mattino dopo ho l’ho accompagnato a scuola guidando piano, senza alcuna fretta di vederlo lasciare la sicurezza della mia macchina.

“Ti voglio bene. Buona giornata”, gli ho detto, come faccio ogni mattina.

L’ho osservato allontanarsi dalla macchina a testa bassa. Sentivo che il mio cuore camminava accanto a lui.

Sono andata a lavoro con le lacrime agli occhi, pensando ai genitori di ragazzi arcobaleno che hanno provato questo dolore prima di me, e a quelli che lo proveranno dopo di me. Ho pensato ai giovani LGBTQ o non-binari che hanno vissuto, o vivranno, il dolore e il ripudio di C.J. senza poter contare sullo stesso amore incondizionato e sullo stesso supporto a casa.

Arrivata a lavoro, mi sono guardata nello specchietto retrovisore e asciugata le lacrime. Ho fatto un bel respiro e sono entrata in ufficio, pronta a iniziare il conto alla rovescia in attesa del momento in cui avrei saputo della giornata di C.J. Chi sarebbe stato suo amico?

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